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Una nostra associata e collaboratrice, che ha vissuto ad Angal, in Uganda, ci scrive:

Sono un’infermiera e lavoro ormai da più di vent’anni in Ospedale a Varese.
Come tutti coloro che svolgono una professione sanitaria e cercano di prendersi cura delle persone, in tutti questi anni anch’io ho cercato di portare avanti con impegno, competenza, professionalità ed empatia questo difficile compito. A volte ci sono riuscita bene, a volte no. Ma ci ho sempre provato, perché penso che non ci sia nulla di più bello che l’entrare in contatto con le persone; l’essere umano è un Valore Inestimabile, qualcosa di assolutamente grande, prezioso, per cui vale la pena spendersi e prendersene cura.
Sono un’infermiera che si trova ad affrontare quotidianamente la perdita di pezzettini di un Sistema Sanitario che un tempo si prendeva cura della salute delle persone, che investiva sulla prevenzione, che promuoveva la medicina di prossimità e che oggi parla di Aziende, di budget, di DRG, che vede un territorio sempre più abbandonato, che vive una medicina sempre più specialistica a favore della cura di organi, ma che troppo spesso non si occupa del benessere della persona.

Sono una persona che svolge un ruolo sanitario e che quindi subisce questo sistema due volte, da professionista e da utente.

Sono solo un’infermiera e, percorrendo un corridoio a fine turno, ho sentito una signora commentare “sembra di essere nel Burundi”. Quante volte l’ho pensato anch’io! Manca il materiale, manca il personale, abbiamo stipendi bassi, la gente che non riesce a prenotare gli esami e non ha i soldi per andare in privato, che ti racconta che ha perso il lavoro. Sono una persona che vive in un contesto sociale e so dei costi sempre più alti, degli stipendi sempre più bassi della povertà, che anche in Italia va aumentando. So anche però che per quanto “scalchignato”, in Italia c’è un sistema di aiuto, le Politiche Sociali le tante Organizzazioni che provano a sopperire le mancanze dello Stato.

Sono una persona nata negli anni ’70, che ha visto l’abbattimento del muro di Berlino, la fine della Guerra Fredda, il disarmo, che ha avuto la possibilità di girare un po’ di mondo e che ora inorridisce davanti alle politiche nazionali, e internazionali, scelte scellerate che vanno contro il “valore umano”. La ghettizzazione sta dilagando, l’impero del profitto è sempre più sponsorizzato a scapito di chi fa fatica a “tirare a fine giornata”. Il mondo intero si sta trasformando sempre più in un luogo dove pochi dispongono della vita di molti, senza alcun rispetto. Ma queste sono solo riflessioni personali forse un po’ banali e scontate, di una persona che non ha nessuna competenza di geopolitica o relazioni internazionali.

Sono un’infermiera e quindi vedo questa società dal punto di vista che conosco, quello della salute delle persone, del loro benessere, di come i vari sistemi sanitari se ne prendono cura, con quale equità ci si prende cura delle persone. Svolgo una professione che si prende cura delle persone, ma a volte mi sembra che siamo rimasti in pochi a provarci.

Un giorno di ormai 6 anni fa, sono partita per l’Uganda, poche settimane, durante la pausa estiva del lavoro. Ho conosciuto così il “vero burundi”, dove c’è il nulla cosmico, eppure un nulla cosmico pieno, pieno di umanità, di persone, di prendersi cura. In Uganda, nella regione del West Nile, nel Distretto di Nebbi, c’è un villaggio, Angal, dove c’è un Ospedale, il Saint Luke Hospital. Arrivo lì come persona che a “casa propria” è infermiera.

Verrebbe da pensare che è come se descrivessi dove abito, dicendo che sono di Saltrio, un paese delle Prealpi lombarde, in provincia di Varese, in Italia. Angal è vicino al confine con il Congo. Nel mio paese c’è la dogana Italo/Svizzera.

Intorno all’Ospedale c’è qualche edificio dotato di comfort: la casa dei Comboniani e il convento delle suore, le guest house per i volontari; le scuole: asilo, scuole elementari, superiori, una scuola per ciechi; qualche edificio per il personale. Il resto solo capanne. Ho fatto quello che dicono in molti, “sono andata ad aiutarli a casa loro”, con 20 anni di esperienza qualcosa farò. Un po’ come dire cambio reparto, ci saranno cose nuove, ma comunque ho già esperienza. Eppure bastano pochi minuti per capire che andare ad Angal non è come cambiare reparto. Non c’è tutto il materiale con cui sono abituata a lavorare, e mi rendo conto di quante cose do per scontato a casa mia. Al S.Luke Hospital non ci sono i reparti specialistici come in Italia. Ci sono 6 reparti Maternità, Pediatria, Reparto Maschile e Femminile, Unità Nutrizionale, Infettivi. C’è una sala Operatoria e il Pronto Soccorso che funziona anche come dispensario dei farmaci. Qui non so come essere infermiera.

In Africa, come paziente, non c’è la possibilità di scegliere in quale ospedale andare, con quale specialista prendere appuntamento, dove andare per gli esami del sangue, fermarti nella prima farmacia che capita per

prendere i farmaci che ti servono. In Uganda la Sanità non è gratuita. Non esiste il medico di base, ma esiste la medicina di prossimità. Persone preparate e formate che gestiscono quelli che una volta noi chiamavamo Consultori, andando nelle zone più remote, nei villaggi più lontani, per cercare di prevenire le situazioni più complesse che potrebbero richiedere ricoveri in urgenza, perché gestire l’emergenza da queste parti non è come chiamare il 112.

Chi va ad “aiutarli a casa loro” sa quanto possa essere difficile, il Cuamm-Medici con l’Africa e gli Amici di Angal lo sanno. Sanno anche che per aiutarli bisogna affiancarsi a loro, collaborare e lavorare a contatto con loro, ascoltare i loro suggerimenti, entrare nelle loro case per capire e ascoltare le loro richieste. Coinvolgerli nelle iniziative intraprese, perché saranno loro a dover andare avanti. E lo fanno ormai da anni, perché sanno perfettamente che nulla può essere gestito come da noi. In Uganda e in molti Stati Subsahariani, se c’è un emergenza medica qualcuno al villaggio ha il telefono (africani poveri ma con il cellulare!) e allerta il punto di Soccorso Sanitario più vicino. Non importa il problema che affligge chi deve essere trasportato, il primo problema è come trasportarlo, che si tratti di un infartuato, una gravida con travaglio difficile, un bambino con un’encefalite malarica o altro, all’ambulanza ci deve comunque arrivare. L’operatore si attiva cercando di capire fin dove è possibile far arrivare l’ambulanza, ma esistono variabili infinite, una per tutte, il costo schizzato alle stelle della benzina dall’inizio della guerra Russo-Ucraina, così in alcune zone subsahariane gli ospedali sono rimasti con un solo mezzo utilizzabile.

Se l’ambulanza è disponibile bisogna coordinare il trasporto dalla capanna all’ambulanza: ci sono fiumi o laghi da attraversare in barca? Sentieri in mezzo alla vegetazione percorribili solo a piedi? Strade dissestate dalle piogge percorribili solo con le moto? Poi deve essere portato in ospedale: a quanti chilometri? Una volta arrivati in ospedale, deve essere preso in carico: ha un’infezione? Ha necessità di un cesareo? Serve l’antibiotico da somministrare o attivare il generatore per la sala operatoria, ma se non ci sono fondi a sostegno di ciò?

Sono solo un’infermiera e penso: da noi arrivi in ospedale, probabilmente subirai la triste esperienza di farti un numero di giorni su una barella, ma se non c’è un antibiotico, ce n’è un altro, se hai bisogno di un cesareo d’urgenza, probabilmente hai seguito un percorso che ha permesso di monitorare la gravidanza per cui ti viene programmato il ricovero per un cesareo in sicurezza. In entrambe i casi ci sarà qualcuno che si farà carico di te, magari in un modo un po’ sghembo, con tutte le difficoltà del nostro sistema intasato fino al midollo, magari le cose andranno male, ma nella maggior parte delle volte le cose vanno bene. Potrebbero andare meglio? Si ma...

Ad Angal l’Ospedale è sostenuto in minima percentuale da fondi dello Stato, per il resto da donazioni. Gli Amici di Angal si adoperano per raccogliere fondi per garantire e migliorare costantemente il suo funzionamento. Grazie a questi fondi, i pazienti di Angal pagano solo una minima parte e, se non possono farlo, parte dei proventi costituiscono un fondo cassa che copre anche queste spese.

Sono un’infermiera e ormai anche in Italia è consuetudine vedere entrare in Ospedale persone che sono di altre nazioni con diversi abitudini, diverse lingue, diversa cultura e a volte diversa visione del concetto di salute. In Italia è la Costituzione che sancisce il Diritto alla salute e alle cure per tutti, eppure quanti commenti negativi se non capiscono bene la nostra lingua o non hanno permesso di soggiorno?

Angal è vicino al confine con il Congo. Ma il Congo non è la Svizzera e la gente attraversa illegalmente il confine per curarsi e scappa dall’ospedale appena migliora, prima di terminare le cure, perché non ha soldi per pagare le spese mediche. Sopravvivono? Muoiono? Non lo sapremo mai. Loro parlano francese, “noi” parliamo inglese, ma la gente dei villaggi parla le lingue locali che sono vere e proprie lingue, quindi capita che gente della stessa nazione non si capisce, perché le nazioni africane nascono dalle colonie e gli stati coloniali hanno suddiviso l’Africa secondo i loro interessi senza considerare le diverse etnie. Ad Angal ci si fa carico anche di queste persone e l’unico commento è “ vengono dal Congo”. Senza giri di parole o altri commenti o sottointesi. Sono messi peggio di noi: funziona così e basta. C’è un confine e ci sono le persone costrette ad attraversarlo.

Sono un’infermiera ad Angal e ho visto una mamma malnutrita senza latte e il suo bambino di cinque giorni morire di stenti. Perché, in fondo, Angal non è come dire paese del varesotto. E se la FAO sospende i fondi, i neonati malnutriti non ricevono più il latte necessario per sopravvivere (eravamo al “primo governo Trump”). In Uganda l’aspettativa di vita era di 45 anni (per fortuna negli ultimi anni un po’ di più) e ho incontrato un giovane uomo di 27 anni che constatava che non aveva ancora molti anni per provvedere alla sua famiglia.

Sono un’infermiera e una persona e inorridisco davanti alle notizie che sento di un pazzo furioso che decide di bloccare gli aiuti umanitari di USAID, una delle organizzazioni più attive, dall’oggi al domani, senza preavviso, senza preoccuparsi di tutte le persone che vi dipendono, chiudendo così fondi per ridurre la malnutrizione, a sostegno di personale qualificato (solo ad Angal 27 persone dello staff, tra medici, infermieri, personale tecnico), per il controllo della TBC e altre malattie, sostegno portato avanti anche da Medici con l’Africa, di formare personale qualificato locale e molto altro. Non ho la competenza per entrare nel merito della decisione presa da Musk/Trump, so però per certo che non sono stati rispettati nemmeno gli accordi già stipulati. Inoltre la dichiarazione di Musk che “l’industria degli aiuti esteri e la burocrazia degli Stati Uniti non sono allineate con gli interessi americani e in molti casi sono antitetiche ai valori americani, servono a destabilizzare la pace mondiale promuovendo idee nei paesi stranieri che sono direttamente inverse alle relazioni armoniose e stabili interne ai paesi e tra i paesi”, mi porta a pensare ad un’America di dis-valori, di costruzione di muri, di chiusure al mondo, di pensiero che con i soldi ci si possa permettere di comprare qualunque cosa, anche la dignità e la libertà delle persone, di intolleranza del diverso, di tutto ciò che non crea profitto.

In altre forme un tizio piccoletto e con i baffetti ha cercato di conquistare il mondo eliminando gay, ebrei, disabili e tutti coloro che non avevano i canoni del perfetto ariano. Stiamo tornando a qualcosa di simile?

Sono solo un’infermiera e se mi guardo attorno vedo Sistemi Sanitari dove le assicurazioni private speculano sulla salute delle persone, stati ricchi, ma con fette di popolazione che non ha la possibilità economica di pagarsi l’assicurazione sanitaria e quindi non si cura; vedo industrie del farmaco che speculano sui costi di vendita al pubblico; vedo interessi e profitti che nulla hanno a che vedere con il prendersi cura delle persone, di quel valore inestimabile che è diventato valore di profitto. E in questo l’America è in prima fila e noi la stiamo copiando, riusciamo sempre a copiare il peggio.

Sono solo un’infermiera che lavora in Italia e ha trascorso un breve periodo in Uganda che alla fine non è poi così distante, perché quando conosci un luogo e le persone che ci abitano, le distanze si riducono e le persone di Angal, sono tutte persone che hanno nomi che ho chiamato, volti che ho visto e voci che ho ascoltato con una famiglia che ho conosciuto. E questo fa la differenza. Così come può fare la differenza, come auspica XN Iraki, professore dell’Università di Nairobi ed editorialista, che da questa sospensione degli aiuti i paesi africani comincino a sviluppare soluzioni sviluppate localmente, che le istituzioni prendano in mano finalmente la situazione e attuino programmi di riforma, che sviluppino il commercio riappropriandosi di quelle ricchezze che sono sfruttate da altri in cambio di elemosine e “aiuti umanitari”. Che finisca finalmente quello che Iraki definisce l’afro-pessimismo, perché l’Africa è un continente popolato da giovani e i giovani se, se messi in condizione, hanno la capacità di creare grandi cose.

Sono solo un’infermiera e probabilmente a nessuno interesserà tutto questo e non sarà questa mia riflessione a cambiare il mondo, ma spero che almeno qualcuno si soffermi a pensarci un po'.

Barbara Galli – Medici con l’Africa Como

anche noi, come tanti altri in questo periodo, bussiamo, ma contiamo che qualcuno apra…
Vengono ancora ai nostri ambulatori…da lontano...




restano in fila nella certezza di ottenere un aiuto: sarà ancora così, nel 2025?
DIPENDE DA TE, GRAZIE
sin da ora

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